[ Neri Pozza, Venezia 2020 ]
Confesso che, in passato, alcune cose mi hanno suscitato una qualche perplessità, se non fastidio, in Emanuele Trevi: il suo antintellettualismo, che a volte prende pose un po’ facili; la sua tendenza a costruire una mitologia di scrittori, critici e artisti che sono poi sempre gli amici di casa; quell’oscillazione, che a noi provinciali suona sempre molto da burgeois bohémiens della capitale, tra i misteri iniziatici e la serata a cena a Trastevere; un certo ritornellare “la vita è sogno, tutto è finzione”. Con il tempo, ho riconosciuto in quei tratti i segni della maniera – più che dello stile – di Trevi: affabilità colta, ossessioni personali, irriducibilità al mainstream, snobismo temperato da svagatezza, puntigli impolitici migliori di tanti sdegni civili a buon mercato. E del resto, non ho nessun dubbio che Trevi sia uno scrittore, che ci abbia dato libri molto belli e che quest’ultimo, Due vite, sia uno dei suoi migliori. È il ricordo-racconto di due amici, Rocco Carbone e Pia Pera, e potrebbe intitolarsi anche Due morti non solo perché Carbone e Pera sono scomparsi ormai da anni, ma perché per Trevi c’è un legame statutario fra scrittura e rievocazione o presenza dei morti – ma pure, tra scrittura, amicizia e fedeltà. Non è infatti la prima volta che Trevi si dà questo compito: era accaduto già in Senza verso, dedicato a Pietro Tripodo, o in Sogni e favole, dove campeggiano Arturo Patten e Cesare Garboli (ma c’è pure un’apparizione memorabile di Amelia Rosselli). Ora, però, viene scelta direttamente la strada della biografa, di cui è potenziata quella relazione tra biografo e biografato che, secondo Daniel Madelénat, è uno dei cardini del genere. Carbone, Pera e Trevi erano amici: già questo legittimerebbe il racconto delle due vicende, che a tratti si incrociano. Ma naturalmente, le analogie si moltiplicano (a partire dalla morte precoce), sono messe in gioco le contrapposizioni (Rocco perennemente scontento e irascibile, Pia insoddisfatta ma leggera), le alternanze compongono un ritmo studiato e naturale. Il saggismo che è sempre stata l’autentica vocazione di Trevi qui prende anche più distintamente che in passato le due forme della riflessione sui libri e della riflessione sui destini, senza scarti o salti. Due vite dà voce così a una saggezza commossa, disincantata, indifesa davanti all’insensatezza e all’inutilità della sofferenza; e insieme rivendica quel sapere dell’individualità, quell’inimicizia per le generalizzazioni e l’astrattezza in cui (Trevi non l’ha mai detto così bene) sta il sapere della letteratura. Non è affatto un cedimento alla registrazione del mondo com’è, né (lo potrebbe un saggista?) una rinuncia a elaborare pensiero: è dare alla riflessione e al racconto i loro spazi propri, modesti per l’atteggiamento ma non per le ambizioni, e senza aver paura, quando occorre, di far sentire le accensioni della voce. Stupisce come uno scrittore che ha una fede così profonda nella letteratura sia così estraneo alla mistificazione che è la seconda natura di tanti. La scelta della non fiction è anche un portato di questa attitudine: Trevi mette in campo gli schermi dell’ironia (o meglio, dell’autoironia) e dell’understatement, mai della letteratura al quadrato o della menzogna. Sono convinto che Trevi sapesse che, mentre lui scriveva le sue Due vite, Siti stava lavorando alle Due storie quasi vere della Natura è innocente, uscito qualche mese prima: lo abbia premeditato o no, ha risposto alla biofinzione con la biografa autentica, all’«autobiografia bifida appaltata» con la pietà per il destino degli altri in quanto altri, alla contemplazione desolata della mediocrità e del nulla con un rito discreto di lutto e di dolore.
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